Una delle salite più classiche della bergamasca da fare in bici è quella di Selvino. Quattro anni fa, una domenica, decisi di allungare il giro e affrontare anche la salita al passo Zambla, pochi chilometri più avanti. Arrivato al passo, scatta la procedura standard: pedali sganciati, bici appoggiata al cartello e foto di rito. Ma è proprio in quel momento che noto un adesivo che mi colpisce, come se risvegliasse qualcosa che già portavo dentro. Una faccia beffarda campeggia sullo sfondo marrone del cartello con la scritta: “Simone Pianetti, uno in ogni paese”. 

Simone Pianetti, perché mi suona familiare? Poi ci arrivo: “Fare Pianetti” era l’espressione che mia nonna usava, scuotendo la testa davanti al telegiornale, di fronte a una notizia di corruzione politica. Per chi non conosce la storia completa, consiglio di leggere la sua pagina Wikipedia o di ascoltare la puntata a lui dedicata di “Non aprite quella podcast”. In breve, la sua è una storia di vendetta: con il fucile in mano, Pianetti si fece giustizia contro quelle figure, più o meno influenti, che lo avevano umiliato, creando attorno a lui un clima infame e bigotto. Da allora, nella bergamasca, si trovano scritte che ricordano il suo gesto, con una frase che suona come un monito: “Uno in ogni paese”, un richiamo minaccioso a una vendetta che potrebbe arrivare da un momento all’altro.

Ma perché parliamo di Pianetti in un blog di fisioterapia? Perché anche nella nostra professione siamo immersi in un clima corrotto, in un mondo del lavoro che spinge a operare male, che premia chi si adegua, diventando parte del problema, e penalizza chi vuole onorare la professione lavorando in scienza e coscienza. Anche in fisioterapia c’è bisogno di un “Pianetti”: qualcuno che si rifiuti di accettare lo status quo e scelga di percorrere la propria strada, lavorando in modo coerente con il profilo professionale e la letteratura scientifica, provando davvero a mettere in pratica il tanto decantato approccio biopsicosociale. 

Il nostro è un lavoro spesso sottopagato, con giornate trascorse a somministrare terapie inutili, mentre la fiamma della passione per ciò che potremmo e dovremmo fare si affievolisce giorno dopo giorno. E poi ci si chiede il motivo dei burnout: un mistero, no? Quella sensazione di essere soli, diversi, utopisti; l’idea che l’unica soluzione sia adattarsi al sistema, sorridendo mentre dentro ci si spegne. La percezione di non avere gli strumenti per farcela da soli, di essere condannati a essere ingranaggi di un sistema distorto che deruba le persone, rendendole più disabili e dipendenti dalla terapia.

Questi sono i temi più comuni tra i fisioterapisti che incontro, che si tratti di corsi, docenze o confronti tra colleghi. E non cambia nulla tra nord e sud, pubblico e privato, giovani o veterani: il disagio è lo stesso. Ed è una situazione schifosa, ingiusta, che non si può accettare passivamente.

Per questo è necessario creare spazi propri, spazi di libertà, rifiutando le false partite IVA. Serve formarsi, avere la sfrontatezza di fare da soli, anche a costo di avere l’agenda mezza vuota senza cedere al panico. Serve differenziarsi in modo radicale e netto dallo standard. Serve fare davvero i riabilitatori, lavorare per il pieno interesse del paziente, costruire reti di colleghi per non finire come Pianetti, a prendere a schioppettate gli “aguzzini” per poi sparire tra i monti. Si può fare: si può essere una piccola oasi, si può fare questo lavoro con soddisfazione e fierezza. Anzi, si deve fare. Perché più siamo, più possiamo offrire un’alternativa. Serve parlarne, essere rumorosi e fastidiosi, perché nessuno si salva da solo. 

Per questo serve un fisioterapista così sfrontato e ribelle da fare semplicemente il proprio lavoro, in ogni paese. Formatevi, connettetevi a giusto odio che vi darà il coraggio di mandare a quel paese i vostri aguzzini e di essere parte del cambiamento. 

Ne serve uno in ogni paese.