Heineken Jammin’ Festival 2010. In attesa dei Green Day, ci si abbatte sulla testa un vero e proprio nubifragio. Pioggia fredda, tanta, vento forte e chicchi di grandine come pietre, mentre corri spintonandoti nella calca per trovare riparo. Cuore che scoppia nel petto, urla per rimanere compatti col gruppo di compagni di liceo, e ci si butta sotto un tavolo da sagra, mezzi congelati, chiudendosi lateralmente raddoppiando le panche da entrambi i lati, da dove acqua e ghiaccio continuavano a torturare ragazzini in canottiera, con l’aiuto del vento.

Quel giorno portarono via diverse persone in ambulanza, coloro che non trovarono riparo nei minuti più critici. Ma per noi adolescenti in piena crisi ormonale, fu spaventosamente bello, adrenalinico, un ricordo che ancora richiamiamo quando capita di ritrovarsi.

Purtroppo non ho un racconto di una bufera migliore di questo per iniziare questo pezzo che vuol riprendere il più celebre canto della resistenza italiana per parlare, come al solito, di riabilitazione: fischia il vento. Non preoccupatevi, ci basterà la prima strofa per lo scopo.

Fischia il vento, infuria la bufera,

Scarpe rotte, eppur bisogna andar,

A conquistare la rossa primavera

Dove sorge il sol dell’Avvenir

Immaginatevi nel mezzo di una bufera: il vento vi fischia nelle orecchie, avete freddo, dita, naso, piedi congelati e tanta, tanta voglia di mettervi al riparo, di tornare al caldo e di mettervi addosso qualcosa di asciutto. E invece fango, altro freddo e vento che vi taglia la pelle. Ecco qui il parallelismo con i nostri pazienti, che si ritrovano immersi in un tumulto incessante di sofferenza fisica e psicologica, una tempesta che sembra non avere fine. Come la bufera, il dolore cronico è implacabile e debilitante, e rende difficili anche le attività quotidiane più semplici. E se non bastasse il fato avverso, ci si mette pure l’attrezzatura a fare cilecca: le scarpe rotte acuiscono la sofferenza dei piedi e la sensazione di non avere gli strumenti per farcela, come quella maledetta ernia vista in risonanza aggiunge peso ad ogni piccola sfida motoria quotidiana. 

E poi il lampo, la parte decisiva, il pivot: “eppur bisogna andar”. Ma come? Perché si procede in questa marcia nella bufera anche quando ogni cellula del tuo corpo ti urla di smettere? Qui c’è esattamente il perno di ciò che dovremmo stimolare: anche se la condizione fisica è compromessa, la necessità di andare avanti, di lottare per una vita migliore, non viene meno. Il paziente, come il partigiano, deve trovare la forza per continuare il suo cammino nonostante le avversità.

E però, come può farcela? Come possiamo aiutarlo a trovare la forza necessaria per affrontare tutto ciò? Anche qui basta continuare a leggere per capire ciò che serve ai nostri pazienti. Il partigiano sopporta tutta quella sofferenza perché sta marciando per “conquistare la rossa primavera, dove sorge il sol dell’avvenir”. Il sole in fondo al tunnel, la speranza di riprendersi, se necessario, con le unghie e con i denti, la propria vita, liberi da costrizioni, come ci suggerisce l’ultima parte dell’ultima strofa del canto: “vittoriosi al fin liberi siam”. È solamente la speranza in un futuro pieno e libero da costrizioni che può dare la forza ai nostri pazienti di passare attraverso tutta quella sofferenza che, purtroppo, molto spesso è decisivo attraversare per non arrendersi ad una vita limitata, nascosti sperando in montagna.

Quando in studio ci troviamo di fronte a persone in mezzo ad una bufera con le scarpe rotte, avremo la forza di aiutarle a camminare verso la loro personale rossa primavera, guardando il loro coraggio e le loro risorse sopite emergere in tutta la loro forza? Oppure, rispondendo pavlovianamente, cercheremo vanamente di asciugarle per il timore di una polmonite, facendole perdere lo spettacolo del sorgere del sol dell’avvenir?