Benjamin Franklin guarda con disprezzo il semaforo di Cavaione
Nel tragitto tra casa e lo studio di Milano ci sono diversi tratti di strada dove purtroppo il traffico si congestiona rendendo il viaggio decisamente sgradevole e lungo. Il collo di bottiglia principale è chiaramente l’ingresso in città e qui probabilmente c’è poco da fare se non usare un mezzo a 2 ruote invece che a 4, ma vi voglio parlare di un altro punto critico del viaggio: il semaforo di Cavaione. Fermi, non scappate, seguitemi e vedrete il risvolto clinico di questo racconto, promesso.
Il semaforo di Cavaione è stato installato a circa metà di un lungo rettilineo che divide una zona industriale da una zona residenziale per aiutare chi proviene da quest’ultima ad immettersi nel rettilineo che collega quella zona a Milano. Sicuramente ha reso quell’immissione più sicura per i cittadini di Cavaione, un nobile intento, regolato i flussi del traffico e permesso alle casse comunali di rimpinguarsi grazie a delle telecamere che controllano le eventuali infrazioni semaforiche.
Ho sempre preso il traffico in quel rettilineo nelle ore di punta come un dato di fatto, una costante della mia vita accettandola di buon grado come uno dei costi del lavorare in città, ma come un fulmine a ciel sereno spezza la quiete della routine un giorno, tornando da Milano nell’orario di punta scendo dal cavalcavia che precede il rettifilo col piede già automaticamente poggiato sul freno e mi accorgo con deciso stupore dell’assenza della coda. Il traffico fluisce, le pastiglie non mordono i dischi, non ci sono luci rosse degli stop delle auto davanti a me. È festivo? Non mi pare. Eppure qualcosa di grosso deve essere cambiato. Avvicinandomi all’incrocio noto che il solito famigerato semaforo invece che stagliarsi nel buio e nella foschia della campagna lombarda rimane spento e praticamente invisibile. Che illuminazione! Era proprio il semaforo a causare centinaia e centinaia di metri di coda, far perdere tempo alle persone di ritorno da lavoro e inquinare l’ambiente coi l’aumento dei gas di scarico! Nei giorni successivi il pattern si è ripetuto, semaforo spento e nessun segno di traffico.
E siamo di nuovo qui: il sentiero per l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Alla ricerca della massimizzazione della sicurezza nell’immissione, una buona intenzione nell’evitare un eventuale singolo raro evento molto negativo, si è danneggiato tutti ogni giorno con matematica sicurezza.
E qui veniamo alla salute. Primum non nocere ci hanno insegnato. Un saggio adagio, ma attenzione al prezzo che l’avversione al rischio ci fa pagare.
Partiamo da alcuni esempi pratici. Un’embolia polmonare non fa piacere a nessuno, ma qual è il rischio che accada in un giovane sportivo con carico parziale post-intervento di ricostruzione di crociato? Davvero vogliamo condannarlo alle scomodissime e orribili calze antitrombo in associazione ad una sequenza senza fine di lividi sulla pancia causati dalle punture di eparina?
E andando proprio nel nostro ambito, la riabilitazione, quanti svantaggi ci assicuriamo per inseguire il feticcio della sicurezza prima di tutto? Nessuno sano di mente ritiene auspicabile una rottura di un tendine achilleo, un cedimento vertebrale, una frattura del collo del femore o confondere un normale mal di schiena con una metastasi ossea, ma attenzione agli svantaggi nello spendersi per allontanare il più possibile questi eventi. Il sottodosaggio nella prescrizione, lo stare cauti e progressivi, il dare per perso e irraggiungibile un obiettivo funzionale ambizioso ogni giorno con ogni paziente sono come i gas di scarico del semaforo di Cavaione, ci avvelenano lentamente e rendono il nostro operato molle, impaurito e poco incisivo. Massì diciamolo, deprimente. Che gusto ha fare il nostro lavoro se pensiamo più ad evitare la rottura che ad aiutare l’atleta a tornare e competere al massimo? Che senso ha fare il nostro lavoro se ci curiamo più che la signora non cada invece che aiutarla a tornare a camminare nei boschi in montagna dove ha vissuto i suoi migliori ricordi? Perché dovremmo preferire sfruttare i minuti di anamnesi per stanare inutili red flag per improbabili diagnosi nefaste invece che ascoltare con curiosità la storia della persona che abbiamo di fronte per comprendere le radici della sua sofferenza?
Liberiamoci dall’ossessione della sicurezza. I rischi sono bassi, l’efficacia nel prevenire eventi critici è infima mentre il danno è assicurato nel 99,9% dei nostri trattamenti. Siate i Fleximan della vostra pratica clinica, liberate voi e i vostri pazienti da questa ossessione ridicola e illusoria della sicurezza. Che Benjamin Franklin venga a disturbare le vostre notti ripetendovi che: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza.”
Michele